martedì 14 gennaio 2014

Un esperimento interessante

Scritto da 8 gennaio 2014 

Ansie e paure in eredità: l’impronta genetica di eventi traumatici

immagine da web
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Insieme alla bocca della mamma, gli occhi del papà e il cipiglio dello zio, ereditiamo anche i loro tormenti, le questioni irrisolte e l’eco dei traumi che hanno subito molto prima che noi venissimo al mondo: gli antenati condizionano le nostre scelte di vita, il nostro comportamento e la qualità delle nostre paure. Gli psicologi lo dicono da tempo, sulla base di dati clinici. Ora arrivano riscontri anche da studi nel campo dell’epigenetica.
Alcune informazioni ambientali, infatti, si fisserebbero nel Dna, trasmettendosi alla prole. Le esperienze traumatiche, in particolare, potrebbero lasciare un’impronta genetica che si tramanda ai discendenti, per almeno due generazioni. Perlomeno, questo sembra accadere nei topi, a quanto risulta da uno studio della Emory University di Atlanta pubblicato sulla rivista Nature Neuroscience
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I due autori dello studio (B.G. Dias e K.J. Ressler) hanno addestrato un gruppo di topi a temere un certo odore, associandolo a una sensazione di dolore provocata da una debole scarica elettrica. La reazione allo stimolo odoroso sembra trasmettersi per via genetica ai discendenti dei topi addestrati: i giovani animali, infatti, pur non avendo mai provato sulla propria pelle la scarica elettrica associata allo stimolo olfattivo, reagiscono sussultando come facevano i loro avi.
Secondo gli studiosi, lo stesso meccanismo di trasmissione potrebbe forse verificarsi negli esseri umani, spiegando geneticamente la predisposizione di alcuni soggetti a disturbi come l’ansia e le dipendenze.
Questi dati hanno suscitato entusiasmi e dissensi nella comunità scientifica, che in parte è scettica circa la possibilità di passaggi transgenerazionali di tal genere, almeno finché non saranno dimostrati con più precisione. Infatti, non si sa ancora come esattamente avvenga la trasmissione, né per quante generazioni le alterazioni restino attive, influenzando il comportamento dei discendenti. Insomma, è ancora tutto da provare.
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Nonostante l’incertezza che circonda questi argomenti, è affascinante accostarli agli studi di psicogenealogia, che spiegano il comportamento individuale, e anche alcune malattie, in rapporto all’insieme delle storie, alle vicende e alle patologie degli antenati (genosociogramma). Ripetizioni di eventi importanti, traiettorie di vita e malattie vengono esaminate attraverso le generazioni, svelando i condizionamenti del passato sul presente.
Ecco un esempio chiaro, citato dalla fondatrice di questo metodo psicologico, Anne Ancelin Schützenberger, che riecheggia, in termini psicogenealogici, l’esperimento con i topi di Dias e Ressler:
“Avverto il calore sul mio corpo, anche se si tratta di acqua appena tiepida, come una scottatura insopportabile. Perché? La chiave si può trovare nella mia storia familiare. Mio padre aveva una sorellina molto più piccola di lui. E a questa bambina è capitata una cosa atroce. Un giorno, è entrata carponi in cucina e ha aperto il rubinetto del bagnomaria. L’ustione ne ha causato la morte (…). E’ stato un tale shock, un tale dramma familiare, che mi è stato trasmesso come se vi avessi assistito. A me, dunque, l’acqua tiepida che scorre sulla pelle procura una sensazione di bruciore mortale. E’ più forte di me” (Esercizi pratici di psicogenealogia, Roma 2012).
C’è ancora tanto da capire e da dimostrare, perlomeno nel campo della trasmissione genetica dei dati ambientali. I nostri parenti possono anche averci trasmesso le loro ansie e i loro traumi: la psicologia però ci dice che, lavorando sul nostro albero genealogico e sulle esperienze degli antenati, possiamo migliorare le nostre vite e trasformare l’eredità familiare in una ricchezza, capace di rifondare positivamente la nostra identità.

sabato 4 gennaio 2014

Il primo avvenimento traumatico




Se vuoi metterti in sicurezza sii vulnerabile.


Ci sono avvenimenti della vita che rompono le protezioni che ci siamo costruiti, improvvisamente la nostra zona di benessere subisce una trasformazione. Qualcosa di nuovo ed imprevisto ci costringe ad un cambiamento, se la velocità con cui ciò accadde è molto forte, ci può essere uno shock. Quando vengo in contatto attraverso il mio lavoro o attraverso delle esperienze personali con la forza di tali avvenimenti, c'è qualcosa in me che ammutolisce. E' molto facile trovare delle ipotetiche cause di un fatto, o decidere qual'è la maniera più corretta di reagire, ma ciò che ammutolisce non si situa a quel livello. Spesso il silenzio è necessario per permettere di riconoscere la forza in atto, trovare delle spiegazioni o delle soluzioni è possibile, ma non è fondamentale. Comprendere la priorità del silenzio interiore è essenziale per chi fa il mio mestiere, è infatti importante comprendere che si può essere veramente presenti nel setting relazionale solo se si accetta di ascoltare piuttosto che di "re-agire". Quando parlo di ascolto mi riferisco precisamente ad un silenzio attento in cui i sensi sorpassano i pensieri. Usando una metafora  potremmo paragonare il fatto imprevisto alla frattura di un guscio che fino a quel momento ci ha protetto. Potremmo parlare di uovo e di pulcino e in definitiva la domanda è: cos'è quella forza che fa si che il pulcino si metta a beccare il guscio? Non è forse quel movimento del becco il primo dei movimenti traumatici? Chi dà l'impulso al pulcino? Come può avere la forza di creare egli stesso la sua totale insicurezza? In fondo nell'uovo non si sta poi così male, perché complicarsi la vita? Ritengo che ogni avvenimento che accade nell'esistenza sia una specie di frattura del guscio, poco importa che sia il pulcino a rompere l'uovo o che accada in altro modo, la forza in atto è la stessa. Di fronte all'uovo in frantumi possiamo disperarci e cercare in tutti i modi di ricomporre il guscio, oppure possiamo fare silenzio ed ascoltare la spinta che ha permesso al pulcino di usare per la prima volta il becco, quella forza siamo noi e lo si può riconoscere diventando profondamente silenziosi, ammutolendo.  E' attraverso questa sorta di denso silenzio  che affiora ciò di cui l'altro ha davvero bisogno ed é in questa relazione basata sull'essenziale che il mestiere di counselor acquista tutto il suo valore. In definitiva, affrontare gli imprevisti in questo modo è piuttosto radicale, ma ad un certo punto ci si rende conto che tutte le soluzioni di un problema non ci liberano dalla paura fondamentale perché “risolvere”, sebbene necessario, non ci mette in sicurezza definitivamente. La paura di un nuovo imprevisto sarà infatti sempre presente e si manifesterà come ansia e sensazione di minaccia. Cominciare a prendere confidenza con la forza primordiale che ci abita, che non è separata dall'avvenimento imprevisto, è drastico e liberatorio. L'imprevisto disagevole e la forza originaria sono due facce della stessa medaglia e l'imperfezione del guscio ci racconta che la sicurezza è possibile solo quando accettiamo di essere vulnerabili, persone abitate dall'esistenza che sono tutt'uno con il guscio imperfetto e ammutoliscono di fronte alla frattura vitale.