La nostra follia prima o poi appare. Possiamo ignorarla e
coprirla con un pavimento tirato a lucido, oppure possiamo innamorarci del
nostro ambiguo buio, dirgli “si” e sperimentare la profondità e la potenza
della compassione. Personalmente non ho mai visto una persona ritrovare la
gioia di vivere attraverso l’analisi della patologia propria o altrui. L’analisi,
per quanto precisa, è un sollievo momentaneo. Ciò che nella mia esperienza
risolve, è il lasciarsi toccare dal dolore che si risveglia grazie all’evidenza
d’aver ferito, poco importa se un altro o noi stessi, è la stessa cosa. La
parola compassione significa letteralmente “comunanza di dolore, “ ovvero
entrare in una comunione intima e radicale con un dolore “senza condizioni” che
conduce all’intimità più profonda e autentica che possa esistere con un altro
essere umano.